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ELEGIA LATINA

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Messaggio  magisterium Gio Apr 24 2008, 19:00

Prendendo spunto dagli ultimi argomenti studiati in classe e assegnati, oltre alla scheda che ho dato in classe e che brevemente riassume alcuni confronti tra gli elegiaci latini, inserisco qui un quadro sintetico delle caratteristiche dell'elegia latina da integrare con quello che già si possiede.
Come riferimento prendo http://www.progettovidio.it/introduzioneelegia.asp .
Per quelli che non partecipano al progetto, daremo il testo in fotocopia.





Nata, comunque, in ambiente ionico, nel VII sec., l'elegia ebbe carattere guerresco con Callino e con Tirteo; con Solone divenne politica e sociale; con Mimnermo cantò la fugacità malinconica della giovinezza e dell'amore; fu pessimistica e moraleggiante con l'aristocratico Teognide, filosofica con Senofane. Nella II metà del V sec., significativa fu invece l'opera di Antimaco di Colofone, che raccolse una serie di elegie che narravano vicende mitiche d'amore sotto il nome di Lide, la sua donna (come Mimnermo aveva fatto per la flautista Nannò), costituendo un importante tramite per l'elegia erotica e narrativa di età ellenistica. L'elegia alessandrina fu sopra tutto l'elegia dell'eros tormentato e doloroso, delle passioni del mito meno conosciute; in essa il poeta, molto più che parlare di sé, esponeva gli antichi, mitici casi d'amore.


Proprio agli elegiaci alessandrini (come Callimaco e Filita per Properzio in particolare, come abbiamo rilevato nella mappa in fotocopia) i Latini dovettero rifarsi come a maestri (anche per quella a sfondo più spiccatamente "eziologico": gli "Aitia" callimachei costituiscono l'indubbio punto di riferimento per le "Elegie romane" di P. e per i "Fasti" ovidiani).
Purtroppo, per la scarsità di dati non possiamo verificare se anche negli elegiaci alessandrini fosse presente, magari in piccola parte, quel carattere personale e soggettivo tipico dei Latini.

Certo, Quintiliano con la sua celebre affermazione (10, 1, 93 "elegia... Graecos provocamus", "nell'elegia gareggiamo coi Greci") doveva avvertire concretamente i caratteri in parve innovatori dell'elegia romana. Di sicuro, a tal proposito, noi possiamo soltanto sottolineare l'importanza di Catullo (e, forse, prima di lui, degli stessi "neoteroi") e del suo mondo
poetico per la mediazione con quel mondo greco e per la formazione dell'elegia propriamente latina.


Riduttiva dunque, a questo riguardo, appare la tesi del critico F. Jacoby, secondo la quale l'elegia latina deriverebbe non direttamente dall'elegia erotica alessandrina (come invece affermava un altro critico, F. Leo), ma da un ampliamento dell'epigramma greco, il genere letterario al quale i poeti d'Alessandria avevano affidato l'espressione diretta del sentimento personale. Spunti epigrammatici non mancano, certo, presso gli elegiaci latini; tuttavia la momentanea
effusione del poeta ellenistico, che quasi sempre s'esaurisce in un respiro troppo breve e termina spesso con una conclusione convenzionale, viene, dagli elegiaci latini, inserita in un componimento che è già strutturalmente diverso, più ampio e impegnativo, e decisamente più "personale" o - come meglio si dice - "soggettivo", autobiografico. Neanche sono assenti punti di contatto tra elegia latina e "commedia nuova". E, ancora, sia per l'epigramma, sia per la commedia, tanta parte dovette avere, anche per i poeti elegiaci, l'insegnamento della scuola, in particolare la retorica, col suo ricco campionario di temi e situazioni.



Al centro dell'elegia latina è la figura femminile, una donna dai netti connotati spirituali e dalla presenza fisica talora assai corposa, e spesso (inconsapevolmente) ossessiva. Accanto a lei, un poeta che la canta, perché (oltre tutto)
è proprio lei ad esserne l' "ingenium", l'ispirazione esclusiva; un poeta che la canta e che la adora, pur fra tradimenti,
liti e riappacificazioni, in un vagheggiamento che trascende la dimensione puramente erotica per approdare ad una dimensione immaginifica e mitica, spesso ambigua (ma il mito, quando c'è, non è elemento fondamentale, ma accessorio: fondamentale è piuttosto la vita del poeta: questa sarebbe, secondo taluni critici, la vera novità rispetto all'originale greco). Essenziale, nel corteggiamento, è poi lo stesso esercizio poetico, che prospetta all'amata una fama imperitura; un esercizio poetico che per il poeta diviene tutto, assorbe completamente la sua vita, distogliendolo completamente
da quelli ch'erano i doveri (sociali e militari) propri del "civis" romano: una volontaria, e orgogliosa, "nequitia", un vero
e proprio "otium" amoroso, cui spesso si associava financo una programmatica "recusatio": ovvero, l'autore elegiaco
confessava di accontentarsi di trattare un genere così umile e "privato", anche perché non in grado di (un modo garbato
per dire che non voleva) trattare genere più impegnativi e più scopertamente ideologici, quali ad es. l'epica o l'eziologia
(che fosse, questo, anche un larvato aspetto di polemica o di fronda politica?).

Immancabilmente bellissima, la donna è dunque vita del poeta, ed è idealizzata sin nel nome (Lesbia, Delia, Cynthia...): essa è l'amica o, meglio, la "domina" alla quale sottomettersi in un "servitium", ovvero in una sorta di volontaria schiavitù o vassallaggio d'amore, non senza un dolce arrovellarsi nella sofferenza, perché la donna è anche (se non soprattutto) traditrice e volubile. E' comunque amore che vuole durare eterno (almeno nelle intenzioni del poeta), e non passione intensissima ma labile, come quella di un epigrammista greco: è eros che va oltre la morte, e che talora il poeta canta addirittura come nenia funebre ("flebilis" è, come già accennato, tradizionalmente il componimento elegiaco).


Il canone degli elegiaci romani appare già in Ovidio, che afferma di essere quarto dopo Gallo, Tibullo e Properzio; alla fine
del I sec. d.C., lo conferma Quintiliano, nella sua "Institutio oratoria", in quel famoso trafiletto, in parte già citato,
la cui valenza anche "critica" è, nella sostanza, valida ancor oggi: >; ovvero: Tibullo mi pare essere il rappresentante più discreto e raffinato; altri invece gli preferiscono Properzio; rispetto a questi due, Ovidio è inoltre più licenzioso (nei toni e nei temi), mentre Gallo risulta più "compassato">> [trad. N. Castaldi]. Infine, <restò fuori dal canone semplicemente per i criteri esterni degli antichi, dato che il suo libro era polimetro e non costituito interamente da elegie>> [I. Mariotti].
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